Oltre la Cortina di Ferro – Le vite degli altri – Settima parte (il caso Jugoslavia)
Premessa: la Jugoslavia viene trattata come caso a parte, dato che dal 1948 non faceva più parte dei paesi del Blocco Orientale, dopo la rottura con l’URSS e la sua espulsione dal Cominform.
All’inizio della Seconda Guerra Mondiale la Jugoslavia era una monarchia retta da Paolo Karadordevic, cugino del precedente Re Alessandro I assassinato nel 1934 a Marsiglia dal movimento di estrema destra croato Ustascia (in realtà, il re fu assassinato dai nazionalisti macedoni del VRMO, che avevano collegamenti con quello croato). Costui fece entrare il regno in guerra al fianco della Germania nazista e dell’Italia fascista. Questa decisione provocò la reazione del legittimo erede al trono Pietro II (figlio di Alessandro e quindi nipote di Paolo), il quale mise in atto un colpo di stato che detronizzò lo zio e ruppe l’asse con Hitler e Mussolini.
La risposta tedesca non si fece attendere. Il Terzo Reich invase la Jugoslavia il cui territorio fu annesso alla Germania o agli stati confinanti ad essa alleati , oppure assegnato a diversi stati-fantoccio.
L’Italia partecipò all’invasione partendo dalle proprie basi in Venezia Giulia e Istria, da Zara, e dall’Albania. Essa fu così schierata:
- A nord la 2° Armata (9 divisioni di fanteria, 4 motorizzate e 1 corazzata) sotto il comando del Generale Vittorio Ambrosio con obiettivo Lubiana e la discesa lungo la costa dalmata;
- A Zara vi era una guarnigione composta da 9.000 uomini, al comando del generale Emilio Grazioli, che allo scoppio delle ostilità si diresse su Sebenico, Spalato per giungere a Ragusa (Dubrovnik) il 17 aprile;
- Dall’Albania vennero impiegate 4 divisioni della 9. Armata sotto il comando del Generale Alessandro Pirzio Biroli.
Ad invasione terminata, la Jugoslavia fu suddivisa nella seguente maniera:
- Al Regno d’Italia, fu annessa la città di Lubiana e la parte meridionale della Banovina della Drava, con cui fu costituita la Provincia di Lubiana, e la parte nord-occidentale della Banovina di Croazia, che andò ad ampliare la Provincia di Fiume;
- Regno di Montenegro di cui Vittorio Emanuele III d’Italia assunse la corona;
- Stato Indipendente di Croazia, governato da Ante Pavelic e che aveva come re Tomislavo II, al quale fu annessa anche la Bosnia ed Erzegovina;
- Governo di Salvezza Nazionale in Serbia con a capo Milan Nedic, ma governato direttamente da Berlino.
Il fronte antifascista si organizzò nel Consiglio antifascista di liberazione popolare della Jugoslavia che il 29 novembre 1943 decise di ricostituire uno Stato all’interno dei confini del vecchio regno, con l’aggiunta del Litorale sloveno (che già nel settembre del 1943 era stato proclamato dal Fronte di Liberazione del Popolo Sloveno come parte integrante della Slovenia) e dell’Istria, che fu denominato Democrazia Federale di Jugoslavia in attesa che, con un referendum, il popolo scegliesse se ripristinare la monarchia o creare una repubblica. Josip Broz Tito venne nominato Primo Ministro.
A fine 1944, l’Accordo di Lissa, conosciuto anche come Accordo Tito-Šubašić, tentò di fondere il governo comunista con quello in esilio di Pietro II. Il 7 marzo del 1945 il governo provvisorio della Democrazia Federale di Jugoslavia si riunì a Belgrado. Questo governo era capeggiato da Tito e non aveva nessun rapporto con quello del Re. Dopo le elezioni dell’11 novembre 1945 (secondo molti di fatto controllate e massicciamente inquinate dai titoisti), il fronte nazionale capeggiato da Tito ottenne la maggioranza assoluta. Tito venne nominato Primo Ministro e Ministro degli Esteri della Democrazia Federale di Jugoslavia.
Durante questo periodo le armate titine si resono protagoniste nella deportazione delle popolazioni etnicamente tedesche, considerate collaborazioniste. Tedeschi etnici, cetnici, ustascia e altre formazioni militari croate e slovene vennero catturati durante gli spostamenti tra le masse di rifugiati, e nonostante le promesse di Tito ai collaborazionisti di una resa sicura, un gran numero di collaborazionisti e supposti tali finirono uccisi (Massacro di Bleiburg).
La stessa sorte toccò agli italiani, ai tedeschi e agli ungheresi. La popolazione italiana dell’Istria fu giudicata sommariamente fascista e subì i Massacri delle Foibe, mentre l’etnia italiana presente nella Dalmazia fu considerata collaborazionista con gli invasori italiani e perseguitata. I “fascisti ungheresi e tedeschi” subirono il Massacro di Backa tra il 1944 e il 1945. Con l’Operazione Keelhaul furono invece massacrati un gran numero di ustascia.
Nel novembre 1945 fu redatta una nuova Costituzione, promulgata il 31 gennaio 1946, sul modello centralista sovietico. Intanto il movimento partigiano jugoslavo fu trasformato nell’esercito ufficiale della Democrazia Federale di Jugoslavia (Armata Popolare di Jugoslavia, JNA), inizialmente considerato il quinto più potente esercito in Europa. Tito organizzò anche una forza di polizia segreta, l’Amministrazione di Sicurezza dello Stato (Uprava državne bezbednosti/sigurnosti/varnosti, UBDA). Sia l’UDBA che il Dipartimento per la Sicurezza dello Stato (Organ Zaštite Naroda (Armije), OZNA) avevano il compito di dare la caccia ai collaborazionisti, i quali includevano molti preti cattolici, visto il coinvolgimento del clero cattolico croato con il regime degli Ustascia.
Il 29 novembre 1945 Re Pietro II venne deposto dall’Assemblea Costituente Jugoslava, il 13 marzo 1946 il generale Dragoljub Mihailovic (capo dei cetnici, gli ultranazionalisti serbi fedeli al Re) venne catturato dall’OZNA e ucciso il 18 luglio. Tito modellò il suo regime su quello degli altri stati comunisti dell’Est Europeo. La Lega dei Comunisti di Jugoslavia vinse le prime elezioni del dopoguerra, nelle quali schede semplificate consentivano solo un’alternativa tra “si” e “no”. Nonostante la natura controversa di queste votazioni, bisogna notare che Tito riportava al tempo un massiccio supporto popolare. Forte di questo appoggio, il partito utilizzò i suoi cittadini per stanare collaborazionisti, nazionalisti e anti-comunisti. Josip Broz riusciì comunque a unificare un paese dilaniato dalla guerra e a reprimere efficacemente i sentimenti nazionalisti e separatisti delle popolazioni, in favore di un comune obiettivo jugoslavo.
Nell’ottobre 1946 il Vaticano scomunicò Tito e il governo jugoslavo per la condanna a 16 anni di carcere del controverso arcivesco croato Alojzije Viktor Stepinac, considerato collaborazionista con il regime degli Ustascia, e per aver forzato conversioni dei Serbi al cattolicesimo (la pena fu poi commutata in arresti domiciliari). Con il passare del tempo, la Jugoslavia divenne lo stato più tollerante in materia religiosa tra quelli comunisti, dato che Tito temeva che la repressione favorisse la religione.
Nel 1948, desideroso di creare un’economia forte e indipendente, Tito sfidò apertamente la leadership di Stalin all’interno del Cominform. L’adesione della Jugoslavia al Cominform esigeva un’obbedienza assoluta da parte di Tito alla linea fissata dal Cremlino. Tito, forte della liberazione della Jugoslavia dall’occupazione nazifascista da parte dei suoi partigiani, desiderava invece restare indipendente dalla volontà di Stalin. I rapporti divennero subito burrascosi, a partire dalla censura sovietica sui messaggi che la resistenza jugoslava lanciava da Radio “Jugoslavia Libera”, che trasmetteva da Mosca.
Furono due le decisioni prese dalla Jugoslavia che portarono alla rottura totale con l’URSS:
- il sostegno ai comunisti greci dell’ELAS, un’insurrezione che Stalin riteneva un’avventura;
- il progetto di una federazione balcanica con Albania, Bulgaria e Grecia.
Fin dal 1945 Stalin infiltrò i gangli vitali dell’apparato statale jugoslavo di suoi uomini, cosa che Tito considerò un affronto.
Nel marzo 1948 Mosca richiamò tutti i consiglieri militari e gli specialisti civili attivi in Jugoslavia. In seguito, una lettera del Comitato Centrale sovietico iniziò a criticare le decisione del PC jugoslavo. Per tutta risposta, i dirigenti jugoslavi fecero quadrato attorno al maresciallo e gli uomini di Stalin furono espulsi dal Comitato centrale e arrestati. Il Cremlino giocò l’ultima carta portando la questione davanti al Cominform, ma Tito si oppose. A questo punto il Cominform considerò il rifiuto jugoslavo come un tradimento. Escludendo la Jugoslavia dal Cominform, Stalin sperò di provocare una sollevazione nel paese. Ma ciò non avvenne e il Partito Comunista di Jugoslavia, epurato dai “cominformisti”, elesse un nuovo Comitato Centrale totalmente devoto a Tito.
La rottura con l’Unione Sovietica portò grande simpatie internazionali a Tito, anche se il paese subì un periodo di instabilità. La deviazione jugoslava al comunismo fu definita “Titoismo” da Mosca, cosa che permise all’URSS di perseguitare quanti nei paesi del Blocco Orientale erano accusati di simpatie con la Jugoslavia. Nel contesto della spaccatura tra cominformisti e titoisti, Tito diede vita in patria ad un clima fortemente repressivo. Oppositori politici, “cominformisti” o presunti tali (tra l’altro parecchi comunisti italiani – tanto autoctoni che immigrati- accusati di stalinismo), vennero rinchiusi in campi di prigionia, tra i quali spiccava il campo di Isola Calva (Goli Otok), dopo processi e condanne sommari.
Durante la crisi, Churchill sviluppò una discreta simpatia per Tito, chiedendogli in cambio di ritirare i suoi partigiani dalla Grecia dilaniata dalla guerra civile. Nel contempo, intimò a Stalin di non toccare la Jugoslavia. Per tutta risposta, Mosca tentò di fiaccare Belgrado attraverso l’arma economica. Ridusse le esportazioni dell’URSS verso Belgrado del 90% e obbligò gli altri stati dell’Europa orientale a fare altrettanto. Questo blocco economico costrinse Tito ad aumentare i suoi scambi con i paesi occidentali. Pur restando fedele al socialismo e richiamandosi agli stessi principi dell’Unione Sovietica, la Jugoslavia ne rimase politicamente indipendente. Tito rimise dunque in discussione la direzione unica del mondo socialista impressa dall’URSS, aprendo la strada all’idea di un socialismo nazionale. Solamente la destalinizzazione lanciata da Nikita Sergeevic Chruscev permetterà una normalizzazione dei rapporti tra URSS e Jugoslavia.
Il 26 giugno 1950 l’Assemblea nazionale jugoslava approvò una legge cruciale, scritta da Tito e Milovan Gilas, sull’autogestione: un tipo indipendente di socialismo che mirava a redistribuire i profitti realizzati dalle fabbriche tra gli operai. Il 13 gennaio 1953, la legge sull’autogestione venne posta a base dell’intero ordine sociale in Jugoslavia. Tito successe inoltre a Ivan Ribar come Presidente della Jugoslavia il 14 gennaio 1953.
Tito divenne famoso per perseguire una politica estera neutrale durante la Guerra Fredda e per il suo appoggio all’autodeterminazione dei popoli.
Dopo la morte di Stalin, Tito rifiutò l’invito dell’URSS al rientro nel Cominform. Chruscev e Nikolaj Aleksandrovič Bulganin visitarono Belgrado nel 1955 e chiesero scusa per i misfatti dello stalinismo. Josip Broz visitò l’URSS nel 1956, segnalando che l’animosità tra URSS e Jugoslavia stava scemando. Comunque, le relazioni tra URSS e Jugoslavia avrebbero raggiunto un altro punto basso alla fine degli anni sessanta.
Tito sviluppò buoni rapporti con la Birmania di U Nu, viaggiandovi nel 1955 e nel 1959, nonostante Ne Win non ricambiò la visita nel 1959. La Jugoslavia permetteva agli stranieri di viaggiare liberamente per il paese, e ai suoi cittadini di viaggiare per tutto il mondo, una cosa unica all’interno dei paesi comunisti. Un gran numero di cittadini jugoslavi lavorarono in Europa Occidentale.
A seguito della Conferenza di Bandung del 1955, Tito intensificò le sue relazioni con l’Egitto di Gamal Abd el-Nasser e l’India di Jawaharlal Nehru, che rincontrò nella Conferenza di Brioni del 1956. Successivamente, con la Conferenza di Belgrado del 1961, Tito fondò il Movimento dei paesi non allineati insieme a Nasser, Nehru, Sukarno e il ghanese Kwame Nkrumah, in quella che fu definita “l’iniziativa dei cinque”, stabilendo forti legami con i paesi del Terzo Mondo. Questa mossa ebbe un grande successo nel migliorare la posizione diplomatica della Jugoslavia. Tito coltivò anche ottimi rapporti con l’Etiopia e in particolare con l’Imperatore Haile Sellassie, considerato leader carismatico dell’Africa e fu più volte ospite ad Addis Abeba.
Il 7 aprile 1963 la nazione cambiò nome in Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. In contemporanea, furono lanciate riforme che favorino l’impresa privata e fu allentata la presa del regime sulla libertà d’espressione. Nel 1966 Tito firmò un accordo con il Vaticano, che garantiva nuova libertà alla Chiesa Cattolica Romana di Jugoslavia, in particolare nell’insegnamento del catechismo e nell’apertura di seminari. Questa “ondata riformatrice” trovò l’opposizione dei comunisti più ortodossi, che culminò con la cospirazione capeggiata da Aleksander Rankovic, capo della sicurezza. In seguito alle dimissioni di Rankovic, ci fu una liberalizzazione, di cui beneficiarono soprattutto artisti e scrittori.
L’Agenzia di Sicurezza dello Stato (UDBA) vide ridotti i propri poteri e il proprio staff ad un massimo di 5.000 persone. Il 1º gennaio 1967, la Jugoslavia fu il primo paese comunista ad aprire le sue frontiere a tutti i visitatori stranieri, abolendo il regime dei visti.
Nello stesso anno Tito si fece attivo promotore di una risoluzione pacifica del conflitto arabo-palestinese. Il suo piano chiedeva agli arabi di riconoscere lo stato d’Israele in cambio del ritorno dei territori conquistati da Israele. Gli arabi rifiutarono la sua idea di “terre per il riconoscimento”.
Nel 1967 Tito offrì il suo aiuto al leader cecoslovacco Alexander Dubcek nel negoziato con i sovietici. L’anno dopo il maresciallo criticò violentemente l’invasione di Praga da parte delle truppe del Patto di Varsavia, il che contribuì a migliorare la sua immagine tra i paesi occidentali.
A causa della sua neutralità, la Jugoslavia fu l’unico paese comunista ad avere relazioni con paesi della destra anticomunista. Ad esempio, fu l’unico paese comunista autorizzato ad avere un’ambasciata nel Paraguay di Alfredo Stroessner. Tuttavia, immediatamente dopo il golpe cileno dell’11 settembre 1973 troncò ogni relazione con il Cile di Pinochet.
Nel 1971 Tito fu rieletto presidente della Jugoslavia per la sesta volta. Nel suo discorso di fronte all’Assemblea Federale egli introdusse 20 radicali emendamenti costituzionali che avrebbero costituito un rinnovato schema su cui basare lo Stato. Gli emendamenti prevedevano:
- una presidenza collettiva, costituita da 22 membri eletti dalle sei repubbliche e dalle due provincie autonome. La Presidenza Collettiva avrebbe avuto un singolo Presidente, a rotazione tra le sei repubbliche. In caso di mancato accordo dell’Assemblea Federale sulla legislazione, la presidenza collettiva avrebbe avuto il potere di legiferare per decreto;
- un governo più forte, con un considerevole potere di iniziativa legislativa, indipendente dal Partito Comunista. Djemal Bijedic venne scelto come Primo Ministro.
- il decentramento del paese con una maggiore autonomia alle repubbliche e alle provincie. Il governo federale avrebbe mantenuto l’autorità solo sulla politica estera, di difesa, di sicurezza interna, gli affari monetari, il libero commercio interno e i prestiti per lo sviluppo delle regioni più povere. Il controllo dell’educazione, della sanità e degli affitti sarebbero stati esercitati interamente dai governi delle provincie.
Agli inizi degli anni settanta ci furono dei motti rivoluzionari in Serbia, Croazia e Slovenia che chiedevano una liberalizzazione del sistema politico ed economico. Tito li represse con la forza. Negli anni successivi la Jugoslavia accentuò la repressione contro il dissenso, soprattutto in Croazia. Durante la “Primavera croata” del 1970 (anche masovni pokret o maspok, cioè “movimento di massa”), il governo represse sia le dimostrazioni pubbliche sia le idee dissenzienti all’interno del Partito Comunista. Nonostante la repressione, molte delle domande del maspok vennero più tardi messe in opera con la nuova costituzione. Tra i dissenti più illustri ci fu Franjo Tudjman, futuro primo Capo di Stato della Croazia indipendente.
Il 16 maggio 1974 la nuova Costituzione entrò in vigore e Tito venne eletto Presidente a vita. La nuova Costituzione portava l’impronta del teorico sloveno Edvard Kardelj che, in vista della futura scomparsa di Tito, aveva elaborato un modello con-federale basato sulla cooperazione democratica tra le dirigenze comuniste delle varie repubbliche e province autonome, che mantenevano però l’egemonia assoluta nei loro rispettivi paesi.
Dopo la modifica costituzionale del 1974, Tito si distaccò progressivamente dalla politica interna ed estera della Jugoslavia per prendere il ruolo di padre nobile della patria. Nel 1980 il presidente fu ricoverato a Lubiana per problemi di circolazione alle gambe. La sua gamba sinistra fu amputata poco dopo. Morì in clinica il 4 maggio 1980, tre giorni prima del suo 88º compleanno. Il suo funerale vide l’arrivo di molti uomini di stato la cui presenza cercava di attirarsi le simpatie della nuova dirigenza jugoslava, che si trovava in piena guerra fredda priva della guida carismatica.
In base al numero di politici e delegazioni di stato presenti, fu il più grande funerale di stato della storia. Erano presenti quattro re, 31 presidenti, sei principi. 22 primi ministri e 47 ministri degli esteri, da 128 paesi da entrambe le parti della Cortina di Ferro, tra cui Indira Gandhi, Margaret Thatcher e Willy Brandt. Il record fu superato solo dai funerali di Papa Giovanni Paolo II nel 2005. Tito è sepolto a Belgrado, nel mausoleo Kuca Cveca (La casa dei fiori) a lui dedicato. Numerose persone visitano il luogo come un santuario dei “bei tempi”, nonostante non venga più mantenuta una guardia d’onore.
In seguito vedremo come la morte di Tito precipitò la Jugoslavia nel caos etnico-religioso che negli anni ’90 portò allo scoppio del più sanguinoso conflitto dalla Seconda Guerra Mondiale in poi.
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