Sondaggi d’America – Analisi dei risultati delle Elezioni
Salve amici. In questo post presenteremo i risultati delle elezioni di martedì e proveremo ad analizzarli.
LA MATEMATICA
Donald Trump ha vinto il collegio elettorale, per 306–232 (2 stati, Michigan e New Hampshire, non sono stati ancora assegnati dall’Associated Press, ma Trump e Clinton sono rispettivamente in testa), ma ha perso il voto popolare per uno 0,3%, anche se questo margine potrebbe ancora salire in quanto mancano all’appello alcuni voti per posta della California e di altri stati che hanno votato per la Clinton.
Una situazione simile accadde nel 2000, ma all’epoca Gore vinse il voto popolare di uno 0,5%, e perse il collegio elettorale per 271-266 . Trump si appresta a perdere il voto popolare con un margine più o meno uguale rispetto a Bush, ma allo stesso tempo ha vinto il collegio elettorale con un margine più ampio. Ciò ci fa capire come il voto popolare, e i sondaggi ad esso collegato, valgano poco e come sia più importante la distribuzione del voto popolare tra gli stati.
Cosa doveva fare Trump per vincere? Innanzitutto, confermare gli stati vinti da Mitt Romney nel 2012 (un totale di 206 voti elettorali), inclusa la North Carolina. Secondo passo, conquistare 3 stati persi da Romney nel 2012, ma solitamente competitivi e alla portata di Trump, come Florida, Ohio e Iowa, per portarsi a 259 voti elettorali.
A questo punto, il magnate poteva provare a conquistare Nevada, New Hampshire per portarsi a 269 voti (il che significa Presidente eletto dalla Camera a maggioranza repubblicana), per poi eventualmente aggiungere il secondo distretto del Maine. Oppure, vista la difficoltà a vincere il Nevada, in cui le minoranze hanno un certo peso, era consigliabile per Trump provare a sfondare quella famosa “blue wall” (muro blu) di stati considerati molto probabili per Hillary Clinton.
Questi stati sono Wisconsin (10 voti), Michigan (16 voti) e Pennsylvania (20 voti) e a Trump ne sarebbe bastato solo uno (con il Wisconsin sarebbe andato a 269 voti, cioè elezione della Camera, senza inoltre considerare il secondo distretto del Maine). Invece Trump si è imposto in tutti questi 3 stati.
Se la Clinton fosse riuscita ad imporsi in questi 3 stati (in Michigan ha perso per lo 0,3%, in Wisconsin per l’1%, in Pennsylvania per l’1,1%, ovvero 107330 voti, sommando i distacchi di questi 3 stati), avrebbe vinto per 278-260. E’ ovviamente mancato qualcosa alla Clinton in questi 3 stati e nella Rust Belt in generale (il margine di vittoria di Trump in Ohio è molto importante), così come vedremo tra poco.
DOVE E COME HA VINTO TRUMP
Come possiamo vedere nella prossima mappa (più la tonalità di rosso è accesa, più Trump ha fatto meglio di Romney, idem per la Clinton con la tonalità di blu), Trump ha fatto meglio di Romney nel Nordest, nel Midwest e specialmente nella famosa “Rust Belt”.
Trump è riuscito a far breccia tra gli elettori della Rust Belt (Ohio, Indiana, Michigan, Wisconsin, Pennsylvania): gli elettori delle aree rurali di questi stati si sono sentiti abbandonati, alle prese con i problemi relativi alle industrie. Qualche analista ha affermato che gli elettori della Rust Belt si sono sentiti “schiacciati” da un’America sempre più multiculturale, globalizzata (da qui l’appoggio alle tesi di Trump sull’immigrazione) ed hanno visto nel candidato repubblicano un’alternativa al sistema attuale. Micheal Moore lo aveva già previsto mesi fa, dicendo che molti elettori di questi stati avvertivano il bisogno “di cambiare un po’ le cose”, e lo hanno mostrato chiaramente.
Trump ha dedicato molta attenzione a queste zone durante la sua campagna, un po’ meno la Clinton, la quale è stata avvertita come inadatta a migliorare le cose. Questa tendenza si era già nota dalle primarie: Bernie Sanders vinse in Indiana, Wisconsin e Michigan, perse di poco in Ohio e Pennsylvania.
A proposito di Sanders: in questo grafico, abbiamo inserito nell’asse delle ascisse il vantaggio di Sanders nei confronti della Clinton nelle primarie democratiche, nell’asse delle ordinate abbiamo invece inserito la differenza tra Trump e Romney, ovvero quanto Trump ha guadagnato/perso rispetto al candidato repubblicano del 2012. Tutti i punti del grafico sono 49 stati + DC. Abbiamo escluso lo Utah in quanto vi è un candidato indipendente molto forte ed una situazione particolare.
La linea di tendenza è interessante: all’aumentare del vantaggio di Sanders nelle primarie democratiche, aumenta la differenza in favore di Trump nel confronto con Romney.
Quindi è probabile che molti elettori di Sanders abbiano deciso di non votare o di votare per un terzo candidato (come Johnson e Stein, la cui somma negli stati decisivi (Michigan, Wisconsin, Pennsylvania, Florida) è stata maggiore rispetto al margine di vittoria di Trump).
Bisogna però tenere presente che il corpo elettorale delle primarie è limitato. Una interpretazione più prudente ed onesta può essere che questa grafico permette di osservare una certa insofferenza di quelle zone verso la candidata Clinton e quello che rappresenta.
Andiamo ad analizzare la composizione dell’elettorato: i bianchi sono passati dal 72% al 70%, gli afroamericani dal 13% al 12%, i latinos dal 10% all’11%. Gli altri (asiatici ad esempio) dal 5% al 7%.
Nel 2012, Romney vinse il voto bianco per 59-39, Trump lo ha vinto per 58-37, quindi un leggero miglioramento per il candidato repubblicano, ma è da notare la differenza tra bianchi con un titolo di istruzione e bianchi senza: tra i primi, Romney vinse di 14 punti, mentre Trump ha vinto solo di 4 punti. Tra i secondi, Romney vinse di 26 punti, oggi Trump ha vinto di ben 39 punti.
In questo grafico (voto contea per contea), possiamo vedere come all’aumentare dei bianchi senza titolo di istruzione aumenta il miglioramento di Trump rispetto a Romney:
Ora vi presentiamo altre 2 mappe. Nella mappa di sinistra, possiamo vedere quanto Trump ha fatto meglio o peggio rispetto a Romney nelle singole contee. Le contee dove ha fatto meglio (quelle più scure), più o meno corrispondono con quelle più scure della mappa di destra, che rappresenta invece la presenza di bianchi nelle contee, e ciò non è puro caso.
Come abbiamo visto, Trump ha fatto meglio tra i bianchi, ma comunque non abbastanza per guadagnare nel voto popolare rispetto a Romney.
Quindi andiamo a confrontare i dati di afroamericani e ispanici, dove i democratici fanno sempre bene. Tra gli afroamericani, Obama nel 2012 vinse per 93-6. La Clinton ha vinto tra gli afroamericani per 88-8, ha cioè perso 5 punti, Trump ne ha guadagnati 2, per un totale di 7 punti di perdita. Tra gli ispanici (o latinos), Obama vinse per 71-27, mentre la Clinton ha vinto per 65-29. La Clinton ha fatto meglio di Obama tra le donne (54-42 invece di 55-44), ma vi vogliamo far notare un dato interessante: nel 2012, le donne ispaniche (teoricamente dove la Clinton doveva far meglio di tutti, visto che Trump è stato progonista di affermazioni discutibili su donne e ispanici e visto che la Clinton ha dedicato ampio spazio della sua campagna alla minoranza ispanica) votarono a favore di Obama per 76-23, mentre la Clinton ha avuto la meglio per 68-26, perdendo molto terreno.
E’ quindi chiaro che molti democratici sono stati a casa o hanno votato altri candidati, e questa ipotesi è chiaramente suffragata non solo dal grafico di prima sul margine di Sanders e il margine di miglioramento di Trump, ma anche e soprattutto da un confronto con i voti totali del 2012: Romney guadagnò circa 61 milioni di voti, Trump ad ora è a quota 60 milioni: questo dato dovrebbe aumentare nelle prossime ore, ma non abbastanza per superare il totale dei voti di Romney in maniera clamorosa, o forse addirittura ne rimarrà al di sotto. Obama, sempre nel 2012, guadagnò circa 66 milioni di voti, la Clinton è ora a poco più di 60 milioni. Anche questo dato aumenterà leggermente, ma alla fine la Clinton avrà perso circa 5 milioni di voti rispetto al Presidente Obama. Questa tendenza è inoltre riscontrabile in molti swing states.
Possiamo notare il grande vantaggio della Clinton nelle contee urbane: +72,5%. La Clinton ha fatto meglio di Obama nelle zone urbane (Austin, Chicago, Los Angeles, Portland, Seattle, Denver e Newark hanno registrato la peggiore performance di un repubblicano nella storia), ha limitato i danni nei sobborghi rispetto al 2012, ma ha perso molto terreno nelle zone rurali.
IL CONGRESSO
Dopo 10 anni, i repubblicani torneranno ad avere il controllo di tutti gli organi del governo federale: presidenza, Senato e Camera dei Rappresentanti. Inoltre è presumibile che il nuovo giudice della Corte Suprema sarà un conservatore, spostando ancora di più l’ago della bilancia verso i repubblicani.
I repubblicani sono riusciti a mantenere il controllo del Senato, vincendo 6 delle 8 sfide considerate realmente competitive (Missouri, Wisconsin, Pennsylvania, Indiana, North Carolina e Florida, mentre New Hampshire e Nevada sono andati ai democratici). I democratici sono riusciti a strappare 2 seggi ai repubblicani (Illinois e New Hampshire), portandosi a 48 seggi, contro i 51 (quasi sicuramente 52 dopo l’esito del ballottaggio in Louisiana) dei repubblicani.
(In Louisiana vi è un ballottaggio tra repubblicano e democratico, in California vi è stato un ballottaggio tra 2 democratiche, ha prevalso Kamala Harris su Loretta Sanchez per 62,7-37,3)
Mancano esattamente 2 anni, ma già possiamo dire che riconquistare il Senato nel 2018 sarà impresa ardua per i democratici. I repubblicani dovranno difendere soltanto 8 seggi, e su questi 8 seggi i democratici hanno una concreta possibilità, ad oggi, soltanto in Nevada ed Arizona, quindi il miglior scenario possibile vedrebbe una situazione di parità (50-50), ma in questi casi il vicepresidente (il repubblicano Mike Pence) sarebbe pronto a votare con i repubblicani.
I democratici invece dovranno difendere ben 25 seggi (23 puramente democratici, 2 di indipendenti che votano con i democratici), molti dei quali in stati tradizionalmente repubblicani, come Montana, North Dakota, Missouri, Indiana, West Virginia.
Senza alcuna sorpresa, i repubblicani hanno mantenuto il controllo della Camera. Ad ora, i repubblicani sono avanti 239-193, con 2 seggi della Louisiana che andranno al ballottaggio e 4 seggi ancora non assegnati. La situazione attuale è di 247-188 per i repubblicani. Secondo alcune voci, Paul Ryan non sarà più Speaker.
I repubblicani hanno inoltre aumentato il loro bottino tra i governatori.
(La North Carolina è blu chiaro in quanto il repubblicano McCrory ha annunciato di voler presentare ricorsi)
IL FUTURO DEI DEMOCRATICI E IL 2020
Sono appena finite le elezioni del 2016 e molti cominciano già a pensare al 2020.
Trump molto probabilmente avrà alcuni sfidanti (anche Obama ebbe alcuni sfidanti, ovviamente sconosciuti, nel 2012, quindi perchè non dovrebbe averli Trump), ma che al limite di avvenimenti importanti, saranno di “basso livello”.
Ovviamente diversa la situazione tra i democratici. In molti stanno cominciando a parlare di un “tea party” dell’ala più progressista e di sinistra del partito, capeggiata da Bernie Sanders ed Elizabeth Warren. Vedremo se nelle prossime elezioni, a partire dal 2018, emergerà o no questo movimento.
Già si fanno i primi nomi per le primarie democratiche del 2020. Michelle Obama ha subito messo fine alle voci su una sua candidatura, affermando che non correrà nel 2020. Si fanno i nomi di molti democratici, tra questi spiccano quelli di Elizabeth Warren (senatrice del Massachusetts), Tim Kaine (senatore della Virginia, candidato alla vicepresidenza quest’anno), Bernie Sanders (senatore del Vermont e già candidato alle primarie del 2016), Cory Booker (senatore del New Jersey), Sherrod Brown (senatore dell’Ohio), Julian Castro (segretario dell’HUD), Andrew Cuomo (governatore di New York), Bill DeBlasio (sindaco di New York), Kamala Harris (senatrice della California eletta quest’anno), Tulsi Gabbard (rappresentante delle Hawaii), Kirsten Gillibran (senatrice di New York), John Hickenlooper (governatore del Colorado), Martin Heinrich (senatore del New Mexico), Amy Klobuchar (senatrice del Minnesota), Martin O’Malley (ex Governatore del Maryland, già candidato alle primarie del 2016).
I SONDAGGI
E’ impossibile non dedicare spazio alla brutta prova dei sondaggisti, che hanno sottovalutato non soltanto Trump, ma, di conseguenza, anche molti repubblicani in sfide competitive di Senato e governatori. Anche il nostro modello, interamente basato sui sondaggi, alla fine ha prodotto risultati molto diversi dalla realtà.
La lezione è molto chiara: i sondaggi non sono una scienza esatta, e da oggi in poi è meglio non riporre assoluta fiducia nei sondaggi: continuare a considerarli sì, ma non assumere che siano verità assoluta e che tutto andrà a finire come dicono i sondaggi, anzi lasciare uno spazio (da oggi ancora più ampio) a quelle che possono essere considerazioni personali, le cosiddette considerazioni “di pancia”, o basate sul altri fattori, che a volte (martedì ne abbiamo avuto la prova) possono essere esatte.
Però, del resto, non bisogna nemmeno esagerare nel verso opposto. I sondaggi a livello nazionale consideravano la Clinton in testa e così è stato, seppur con un margine ridotto, con un errore superiore solo di poco rispetto al margine d’errore.
Allo stesso modo, il risultato dei tre stati decisivi è stato sì sbagliato dai sondaggisti, ma è stata davvero una corsa sul filo di lana. Si prevedeva una vittoria della Clinton, ma comunque con il dubbio dato dal margine d’errore. In più di un caso, infatti, le percentuali (considerando l’errore) dei due candidati si sovrapponevano a vicenda.
Per oggi è tutto. Vogliamo ringraziare tutti coloro che ci hanno seguito durante questa lunga stagione elettorale, a partire dalle primarie per arrivare alle elezioni generali. Noi torneremo presto con le nostre prime considerazioni sulle elezioni del 2017 e 2018, notizie sull’amministrazione Trump e sui movimenti per le elezioni del 2020.
Vi invitiamo a seguire il nostro account twitter.com/BidimediaUSA che vi terrà aggiornati con sondaggi, notizie e molto altro.