Breve storia delle elezioni presidenziali USA, da George Washington a Barack Obama /5

Parte V – USA

Siamo al 1968: dopo la presidenza Johnson, i Democratici ritengono di avere il vento in poppa, ma non hanno tenuto in conto il malcontento causato dalla guerra in Vietnam, iniziata da Kennedy e portata avanti da Johnson. La contestazione giovanile prende di mira proprio il partito “progressista” (con clamorose proteste durante la convenzione Democratica), che sembra non fare più presa sui giovani.

I Repubblicani invece tornano a puntare sull’elettorato moderato, ripescando Richard Nixon. I Dem gli contrappongono il vicepresidente Hubert Humphrey, esponente della sinistra, da sempre difensore degli interessi degli agricoltori, ma che convince poco gli intellettuali e la borghesia delle grandi città dell’Est. La scelta dei Democratici, ovviamente, è condizionata anche dall’uccisione di Bob Kennedy, fratello di John, che era il più serio pretendente alla nomination, e forse l’avversario potenzialmente più ostico per i Repubblicani.

A frenare la corsa di Humphrey anche la candidatura, negli stati del Sud, di George Wallace, l’ex democratico fiero avversario delle leggi antisegregazione.

In termini di voti Nixon vince solo per 500 mila voti, ma in termini di grandi elettori domina a Ovest e nel Mid West (ai Dem restano solo Washington e Texas) e conquista anche Florida, le due Carolina e la Virginia, che da allora resterà sempre nel campo repubblicano, e poi si impone in Illinois, Indiana, Ohio e Wisconsin. Wallace si impone in cinque stati del Sud, e ad Humphrey resta solo l’Est, oltre al suo Minnesota e al Michigan. Ai Dem vanno anche le Hawaii, mentre l’Alaska tocca ai Repubblicani: una tradizione anche questa che dura fino ai giorni nostri.

Nixon è un presidente che molti storici hanno rivalutato. La sua caduta con il Watergate non può oscurare i buoni risultati del suo governo, sia in politica estera, con un’iniziativa diplomatica che apre alla Cina, sia in economia. Moderato, alieno da ideologismi (difficilmente oggi si riconoscerebbe nel Partito repubblicano di Trump e dei Tea party), si propone come una guida sicura e centrista agli elettori, contro l’estremismo dei “sessantottini” .

Nel 1972 i Democratici, dopo che è stato costretto a uscire di scena il candidato forse più competitivo, Edmund Muskie (il cui killeraggio politico sarà al centro del Watergate), gli contrappongono George McGovern, uno degli esponenti più radicali del partito, pacifista e legato, almeno ideologicamente, ai movimenti giovanili. Questa scelta conduce alla disfatta: Nixon vince a mani basse, 60% a 37%, lasciando all’avversario solo il Massachusetts e il District of Columbia.

La seconda presidenza di Nixon segna due novità assolute: per la prima volta un presidente in carica si dimette di sua volontà (in precedenza solo la morte aveva impedito il compimento del mandato), e per la prima volta sale alla Casa Bianca un Presidente mai eletto da nessuno. Nell’agosto 1974 infatti Nixon si dimette per il Watergate, e lascia il posto al vicepresidente Gerald Ford. Ford però era stato nominato da Nixon al posto del vicepresidente eletto, Spiro Agnew, costretto alle dimissioni nell’ottobre 1973 per un problema di evasione fiscale.

Nonostante questa mancanza di legittimità popolare (pur nel pieno rispetto della Costituzione), Ford regge dignitosamente la carica, e viene scelto come candidato repubblicano nel 1976. I Democratici fiutano la vittoria e gli contrappongo Jimmy Carter, un uomo che sintetizza la dialettica del partito: fisico nucleare, e al tempo stesso proprietario di una piantagione nella sua Georgia. Le elezioni sono molto più combattute del previsto: Carter prevale solo per due milioni di voti, e 57 Grandi elettori, recuperando tutto il Sud, Minnesota, Wisconsin, Ohio e il Nord Est, tranne i soliti Maine, Vermont, New Hampshire, Connecticut e New Jersey. I Repubblicani trionfano invece nel Midwest e nel West.

La presidenza di Carter cade in un momento difficile per gli Usa, stretti tra crisi economica, perdita di prestigio internazionale e debolezza militare, mentre l’Urss vive i suoi anni migliori prima del declino. Carter è un politico molto idealista e pieno di buone intenzioni, ma non brilla per fermezza e decisione. Sembra però poter puntare alla riconferma, quando all’orizzonte si staglia un avversario temibile: Ronald Reagan.

Attore di Hollywood (mediocre), poi presidente del sindacato attori, prima Democratico poi Repubblicano, si presenta come “uomo nuovo” anche se è già stato governatore della California e poi ha lottato contro Ford nelle primarie del 1976. Il suo liberismo spinto (reaganismo), che ha molti precedenti nella cultura Usa (da Jefferson a Jackson, ai presidenti della seconda metà del XIX secolo a quelli degli anni ’20), affascina la classe media, che ritiene di stare pagando troppe tasse per uno stato inefficiente e poco autorevole. A dare il colpo di grazia a Carter, la crisi degli ostaggi nell’ambasciata Usa in Iran, che mina la credibilità del suoi governo. Nel 1980 Reagan si impone in misura molto maggiore delle previsioni:  51% a 41%. Un 6% va a John Anderson, un repubblicano uscito dal partito in polemica con l’estremismo di Reagan, che però finisce per togliere voti soprattutto ai Dem. A Carter resta solo la sua Georgia, le Hawaiii, il West Virginia, Maryland, Rhode Island e Minnesota, oltre al District of Columbia (sempre Democratico).

La presidenza di Reagan accentua le differenze sociali, e smantella parte del welfare state americano . Ma il calo delle tasse, e la nuova politica aggressiva contro l’Urss, convincono la classe media. Reagan poi si rivela un presidente molto abile: autorevole senza essere serioso, brillante e spiritoso come si conviene a un vecchio divo di Hollywood. I Democratici nel 1984 gli contrappongono il grigio Walter Mondale, l’ex vicepresidente di Carter. Una scelta che guarda indietro, e che non viene rivitalizzata dalla designazione alla vicepresidenza di Geraldine Ferraro, la prima donna (e primo politico di origine italiana) destinata a questa carica. E’ una disfatta: finisce 59% a 40% per Reagan, e ai Democratici restano solo il Minnesota, stato natale di Mondale (vinto per lo 0,2%), e il District of Columbia. Passa ai Repubblicani persino il Massachusetts, lo stato più “liberal” degli Usa.

Nel 1988 Reagan passa il testimone al suo vicepresidente, e un tempo avversario, George Bush. Un politico di orientamento più tradizionale e moderato, e piuttosto scolorito. I Democratici sperano nel colpaccio, e dalle primate emerge la candidatura del governatore del Massachusetts Michael Dukakis. E’ un politico di grande valore, e sinceramente “liberal”, ma dal carattere introverso, e decisamente poco affascinante. Anche le sue origini greche, inconsciamente, allontanano molti elettori. Partito in vantaggio, Dukakis perde inesorabilmente terreno anche per essersi detto contrario alla pena di morte. Vince Bush con il 53,3% contro il 46,7%. I Democratici, comunque in rimonta, recuperano Washington e Oregon, Wisconsin e Iowa, New York, Massachusetts e Rhode Island, oltre al West Virginia.

La presidenza di Bush conferma i dubbi che molti avevano sulle sue capacità di leadership. Poco aiuta anche la Guerra del golfo del 1991, vinta trionfalmente dagli Usa, ma al prezzo di lasciare al comando dell’Iraq Saddam Hussein. Nel 1992 Tra i democratici emerge un giovane avvocato dell’Arkansas, Bill Clinton, fascinoso e dall’oratoria coinvolgente, che riesce a trovare la via mediana tra le varie correnti del partito. Ma a colpire gli osservatori è l’ingresso in scena di un “terzo incomodo”, l’imprenditore miliardario Ross Perot, che proponendosi come “uomo del fare” contro i politici parolai riesce a imporsi nel dibattito.

Come si è visto, i terzi incomodi nelle elezioni Usa non prevalgono mai, ma sono decisivi nel far perdere uno dei due contendenti. Il danneggiato in questo caso è Bush, che raccoglie solo il 37% dei voti, contro il 43% di Clinton. Perot delude in parte le attese, ma il suo 18% è un bottino considerevole. Bush domina in quasi tutto il Sud (tranne Georgia, Arkansas e Louisiana),  Nel Mid West (Tranne il Montana) e nell’Indiana. Clinton si prende il resto. Perot non vince nessuno stato, ma arriva secondo nel Maine con il 30%, e ottiene dei buoni 25% nel Mid West.

Nel 1996 Perot ci riprova, ma con meno smalto e attrattiva: è ormai una minestra riscaldata. Nel frattempo Clinton, accompagnato da una buona ripresa economica, continua a godere di grande popolarità, anche se il suo governo non si distingue per particolari riforme sociali. Lo aiuta anche il collasso dell’Urss, che impone gli Usa come unica potenza mondiale, un ruolo che Clinton usa con cautela e senza troppa arroganza. I Repubblicani, che cominciano a essere infiltrati dagli estremisti religiosi, scelgono però un moderato, Bob Dole, parlamentare di lungo corso. Clinton però resta più “fresco” e “nuovo” e vince con il 49 % dei voti contro i 40%, mentre Perot si ferma all’8%. La mappa elettorale è ormai simile a quelle delle ultime due elezioni, con rare eccezioni, tra cui la conquista democratica di Missouri, Arkansas, Lousiana, Kentucky, Tennessee e West Virginia.

La seconda presidenza Clinton è più turbolenta della prima, soprattutto a causa del Sexgate, uno scandalo sessuale sui rapporti tra il Presidente e la stagista Monica Lewinsky, che a distanza di tempo appare piuttosto pretestuoso, e fomentato in modo ideologico dalla destra religiosa. Nel 2000 però i Democratici, che possono contare su un Paese in ottima salute, sembrano ancora favoriti. Il loro candidato è il vicepresidente Al Gore, liberal e ambientalista, ma personalità che decisamente non scalda le masse. E che fa l’errore di volersi mostrare “distante” dall’ancora popolarissimo Clinton.

I Repubblicani gli contrappongono George W.Bush, figlio del presidente del 1988. La “dinastia” Bush come si è visto non è la prima in questa storia presidenziale (abbiamo visto quelle degli Adams, degli Harrison e dei Roosevelt). Ma George W. appare decisamente inadeguato all’incarico. Dietro di sé però ha la Destra religiosa e conservatrice, molto cresciuta negli anni di Clinton, e cavalca un’onda populista che gli attira molti voti dal Mid West. A disturbare Gore anche Ralph Nader, lo storico paladino dei consumatori, che si candida senza la minima speranza di vittoria, e tira via ai Dem il 2,7%. Gore vince in voti popolari per 500 mila voti (lo 0,5%), ma perde tra i Grandi elettori: decisiva la Florida dove Bush, tra mille accuse di brogli (il governatore dello Stato è suo fratello), prevale per appena 537 voti, lo 0,01 per cento del totale. Nader in questo Stato ne aveva presi quasi 100 mila. Si chiede un riconteggio, che la magistratura della Florida non concede, e Gore, per evitare al Paese guai peggiori, rinuncia a combattere oltre. Va detto però che i Dem, rispetto a quattro anni prima, hanno perduto anche il decisivo Ohio e il New Hampshire, oltre ad aver ceduto agli avversari tutto il Sud e il West, tranne l’esterno Ovest (California, Oregon e Washington, che d’ora poi saranno saldamente Dem) e il New Mexico.

Nel 2004 Bush è reduce dall’11 settembre e dalla vittoria nella Seconda guerra del Golfo, che però non ha affatto pacificato il Medio Oriente. La sua leadership è chiaramente fragile e incerta, e non basta l’ostentazione di militarismo a compensare la mancanza di autorevolezza. Però gli Usa si sentono minacciati dal terrorismo, e si aggrappano a quello che già conoscono. I Democratici puntano su John Kerry, eroe di guerra, poi pacifista, politico di lungo corso, moderato. Una candidatura che non convince fino in fondo né a destra né a sinistra. Eppure Kerry arriva a un soffio dal colpaccio: in termini di voti finisce a 2,5 punti da Bush (50,7 a 48,3), ma in termini di Grandi elettori perde solo per la sconfitta di misura in due stati swing: Ohio e New Mexico. La mappa elettorale ormai si consolida: Ai Dem l’Est e l’Ovest, ai Repubblicani il Sud e il Mid-West, con ormai pochi stati swing come Ohio, Florida, Nevada, Arizona e New Mexico, Virginia, e in parte Pennsylvania e New Hampshire.

Una mappa elettorale che si consolida nel 2008, con la vittoria di Barack Obama per i Dem. Una vittoria molto più complicata nelle primarie, dove sconfigge a fatica Hillary Clinton, moglie di Bill, che nelle elezioni “vere”, dove i Repubblicani pagano il conto della crisi finanziaria. Il candidato repubblicano John McCain, è un personaggio di valore, ex combattente, molto indipendente dal partito e non troppo reazionario. Ma il fascino, la cultura e l’oratoria di Obama fanno sembrare l’avversario un semplice sparring partner. E gli americani non sembrano neppure turbati più di tanto dalla pelle nera del candidato democratico, che solo 40 anni prima gli avrebbe impedito, in molti Stati, persino di votare. Obama vince 53% a 46%, recuperando, rispetto a Kerry, Nevada, Colorado e New Mexico, oltre a Florida, Ohio, Indiana, North Carolina e Virginia. E sfiora anche il colpaccio in Missouri e Montana.

Nel 2012 la politica Usa si è radicalizzata. Da un lato Obama ha dalla sua una buona crescita economica, e alcune riforme liberal (come quella sanitaria), dall’altro nella pancia del Paese cresce il fenomeno dell’integralismo religioso e dei “tea party”. Due mondi che fanno fatica a trovare terreni d’intesa. I Repubblicani si sentono maggioranza nel Paese, e ripongono un candidato molto “tradizionale”, Mitt Romney, ricco, conservatore ma non reazionario, ovviamente ultraliberista. All’inizio Obama sembra faticare, ma i Democratici mettono a frutto la prevalenza ormai consolidata tra le minoranze etniche (che stanno ormai diventando maggioranze). Obama vince con 4 punti di scarto, circa 5 milioni di elettori, e rispetto a quattro anni prima perde soltanto Indiana e North Carolina.

La storia continua l’8 novembre 2016 con la sfida tra Hillary Clinton e Donald Trump. Ma è ancora tutta da scrivere.

Bertwooster

Link per leggere le precedenti puntate: prima parte, secondaterza e quarta.

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