Breve storia delle elezioni presidenziali USA, da George Washington a Barack Obama /4

Parte IV – USA

Nelle elezioni del 1920 lo spirito isolazionista, l’impopolarità di Wilson e un certo spostamento a destra dell’opinione pubblica (simboleggiato anche dal proibizionismo, entrato in vigore un anno prima), portano alla vittoria a valanga dei Repubblicani di Warren Harding, sui Democratici di James Cox: 60% contro 34%.

Influisce anche il voto alle donne, che per la prima volta è consentito in tutti gli Stati. I Democratici vengono ricacciati negli stati del Sud, tenendo anche Kentucky e Virginia, ma perdendo però il Tennessee. Harding, prima giornalista, e poi proprietario di giornali, è un avversario storico della politica di Wilson. La sua amministrazione è particolarmente infausta: alcuni suoi ministri sono coinvolti in gravi scandali finanziari, e lui stesso continua a giocare in Borsa (e perdere) dalla Casa Bianca. A evitargli il disonore è la morte, avvenuta nell’agosto 1923 per un infarto. Gli succede il vicepresidente Calvin Coolidge, un avvocato puritano, appartenente alla corrente progressista dei Repubblicani.

Coolidge, personalmente integerrimo, ridà nuovo prestigio alla Casa Bianca, e nel 1924 viene rieletto senza problemi, nonostante una scissione dell’ala sinistra dei Repubblicani, che porta alla rinascita del Progressive Party di Theodore Roosevelt. Nei fatti però, il nuovo partito toglie più voti ai Democratici. Coolidge ottiene il 54%, il Democratico John Davis il 29%, il progressista La Follette il 17%. I Dem, rispetto all’elezione precedente, riconquistano Tennessee e Oklahoma, ma perdono il Kentucky, mentre ai progressisti va il Wisconsin.

Coolidge accompagna gli Usa nella falsa prosperità degli anni ’20. Convinto che lo Stato debba intervenire il meno possibile nell’economia, non sa e non vuole intervenire negli squilibri sociali e finanziari che si stanno manifestando. “L’affare dell’America sono gli affari” è il suo motto.

Nel 1928 rifiuta il terzo mandato, come finora tutti hanno sempre fatto ispirandosi a Washington, e lascia il posto al suo ministro del commercio, Herbert Hoover, un ingegnere minerario, già responsabile degli approvvigionamenti per la popolazione europea ai tempi della Prima guerra mondiale. Hoover vince senza problemi sull’avversario, il cattolico Al Smith (il primo cattolico candidato alla presidenza). In voti popolari Smith sale al 40%, ma la ridotta democratica si restringe a Sud Carolina, Georgia, Alabama, Mississipi, Lousiana e Arkansas, con l’aggiunta di Massachusetts e Rhode Island.

Hoover è uno dei presidenti più sfortunati della storia. Arrivato alla Casa Bianca sull’onda di una bolla economica e finanziaria, deve affrontare la tremenda crisi del 1929, a cui non sa reagire. Fedele al suo liberismo, non si occupa della protezione sociale dei milioni di disoccupati, e diventa molto impopolare.

I Democratici gli contrappongono Franklin Delano Roosevelt, lontano parente di Theodore: brillante avvocato, governatore dello Stato di New York, politico scaltro, freddo e razionale, si impone con il suo New Deal, cioè un programma di grandi investimenti sociali per combattere la crisi, ispirato al keynesismo. La sua vittoria nel 1932 è travolgente: 57% contro il 40% di Hoover, a cui restano solo Pennsylvania, Connecticut, Delaware, Vermont, New Hampshire e Maine.

Franklin Roosevelt è stato uno dei presidenti più popolari della storia. I suoi sforzi per trascinare il Paese fuori dalla recessione, spesso ostacolati dalla Corte suprema, la sua decisione di abolire il proibizionismo, che taglia le gambe alla criminalità organizzata, il grande fermento culturale ispirato dalla sua presidenza, e che ancora oggi possiamo apprezzare nel cinema della Hollywood degli anni ’30, gli garantiscono il consenso del popolo e degli intellettuali. Nel 1936 “massacra” elettoralmente il candidato repubblicano Al Landon 61% a 36%: i Repubblicani vincono solo in Vermont e in Maine.

Curiosità: risale a questa elezione il primo sondaggio elettorale della storia, che pronosticò la vittoria di Landon. I sondaggisti dell’epoca telefonarono a casa del loro campione statistico, e non si resero conto che i poveri, gli operai, l’elettorato di Roosevelt il telefono a casa non l’avevano…

Il 1940 è l’anno della “rivoluzione” di Roosevelt che, contro una tradizione secolare, si candida al terzo mandato. La cosa suscita scalpore e scandalo nel mondo politico. Inoltre nella campagna elettorale Roosevelt, ambiguamente, non si pronuncia sul possibile intervento nella Seconda guerra mondiale in corso. Comunque sia, il suo successo, contro il Repubblicano Wendell Wilkie, è ancora schiacciante, anche se meno clamoroso di quattro anni prima: 54% a 44%. I Repubblicani escono dal guscio di Maine e Vermont, e si prendono a sorpresa Michigan e Indiana, oltre che diversi Stati del Mid-West, tra cui Anche l’Iowa. Una tendenza che si svilupperà in futuro.

Nel 1941 Roosevelt, dopo l’aggressione di Pearl Harbour, schiera gli Stati Uniti in guerra. Nel novembre 1944 il conflitto va verso la fine, ma è ancora troppo incerto perché si possa cambiare il comandante in capo. Quindi il presidente, ormai stanco e malaticcio, si ripresenta per il quarto mandato consecutivo, e vince ancora. Il suo avversario, Thomas Dewey, il procuratore che aveva arrestato Lucky Luciano, arriva al 46% (contro il 53% di Roosevelt), e si impone, rispetto a quattro anni prima, anche in Ohio e Wisconsin (ma perde il Michigan). Roosevelt sceglie come vicepresidente un oscuro senatore, Harry Truman, un piccolo commerciante e in seguito funzionario pubblico, onesto e scrupoloso, ma di certo non particolarmente brillante. Tocca proprio a Truman succedere a Roosevelt il 12 aprile 1945, a guerra non ancora conclusa. Ed è lui che dà il via libera al bombardamento atomico di Hiroshima e Nagasaki, un gesto che va comunque contestualizzato nella generale ferocia della guerra, e della guerra contro il Giappone in particolare.

Truman è un personaggio grigio, ma comunque pratico e di buon senso, e ispira fiducia nell’elettore medio statunitense. La sua gestione del dopoguerra, la sua decisa opposizione all’Urss e al mondo comunista, che porta alla Guerra fredda e poi a quella “calda” di Corea (dal 1950), gli fanno conquistare anche le simpatie dei moderati. Nel 1948 tutti si aspettano la vittoria dei Repubblicani, ancora una volta guidati da Dewey. Tanto più che al Sud spunta un candidato che, pur essendo democratico, si oppone alla politica antisegregazionista del governo nell’esercito, James Strom Thurmond. Eppure Truman, anche senza l’appoggio di alcuni stati del Sud, che votano Thurmond, vince, anche se di misura, 49% a 45%. Al Sud i Democratici conservano il Texas (storicamente una loro roccaforte), l’Oklahoma, l’Arkansas, la Florida e la Georgia, vincono poi in quasi tutto l’Ovest e a Est solo in Massachusetts e Rhode Island. I Repubblicani riconquistano New York e Pennsylvania, ma non basta.

La seconda presidenza di Truman è segnata dal maccartismo, che instaura un clima di “terrore” nel mondo della politica e della cultura. La paranoia anticomunista, di cui il senatore Joseph McCarthy si fa spregiudicato portavoce, favorisce lo spostamento a destra del Paese. Anche se i Repubblicani, per riconquistare la Casa Bianca, preferiscono puntare su un moderato, il generale Dwight Eisenhower, eroe della Seconda guerra mondiale (scelta che, come abbiamo visto, ha diversi precedenti in passato). Nel 1952 a Eisenhower i Democratici contrappongono un esponente molto “liberal”, Adlai Stevenson, intellettuale, amico di scrittori e artisti, che si propone come continuatore ideale del New Deal. Non è una scelta felice: l’America profonda a cui piaceva Truman, preferisce “Ike” Eisenhower. La sua vittoria è landslide: 55% a 44%, con i Democratici di nuovo confinati al Sud, con in aggiunta Kentucky e West Virginia.

Eisenhower governa con saggezza e moderazione un America che ha voglia di normalità, dopo i decenni della crisi economica e del conflitto mondiale. “Congelata” la Guerra fredda, con il Paese in crescita economica, Ike non ha difficoltà a ottenere il secondo mandato: gli viene contrapposto ancora una volta Adlai Stevenson, che perde in modo ancora più netto: 57% a 42%. I Democratici vincono ancora solo negli stati del Sud, dove peraltro sta crescendo la tensione razziale, che imbarazza molto il partito “progressista”, visto che gli esponenti segregazionisti sono proprio del partito Democratico.

Si arriva così al 1960: Eisenhower non può più candidarsi (nel 1951 un emendamento alla Costituzione ha sancito in due mandati presidenziali il limite massimo, stabilendo per legge costituzionale quello che Washington aveva deciso per sé), e lascia il testimone al suo vicepresidente, Richard Nixon, avvocato californiano ambizioso, pragmatico e moderato. I Democratici, divisi al loro interno tra liberal e conservatori, tra rappresentanti del mondo sindacale e quelli del mondo agricolo, convergono su una nuova leva: John Kennedy, rampollo di una delle famiglie più ricche d’America, eppure esponente della “sinistra” del partito (anche se molto attento a non sbilanciarsi mai troppo su alcun argomento). Si tratta di una delle elezioni più emozionanti della storia: le appartenenze e le consuetudini geografiche saltano. Nixon è favorito, ma appare grigio e impacciato, mentre l’oratoria affascinante e la disinvoltura di Kennedy conquistano molti indecisi. Nel voto popolare è un testa a testa: Kennedy ottiene solo 100 mila voti in più. Nel voto dei Grandi elettori invece Kennedy ha un margine molto più largo: il Sud lo tradisce in parte, perché Alabama e Mississipi votano per i segregazionisti, mentre la Florida è repubblicana. Invece torna ai Dem il Nord Est produttivo, tranne i soliti Vermont, Maine e New Hampshire. In più Kennedy si aggiudica Michigan e Minnesota, mentre la California non tradisce Nixon, così come tutto il Mid West vota Repubblicano. Una mappa che inizia a somigliare a quella attuale, pur con molte differenze. Kennedy resta tuttora l’unico presidente degli Stati Uniti di religione cattolica.

Le vicende della presidenza Kennedy,e la sua tragica fine, sono note. Alla sua morte diventa presidente Lyndon Johnson, esponente dei Democratici del Sud, di tendenze conservatrici che, per un’ironia della storia, raccoglierà l’eredità di Kennedy sia in campo sociale, con il Fair Deal, una politica in favore delle classi deboli, sia contro la segregazione razziale, con il sostegno, all’inizio timido, poi sempre e più convinto, alle battaglie di Martin Luther King. Johnson varerà le principali leggi antisegregazione, consapevole di tradire di fatto la storia del suo partito al Sud, e di comprometterne per sempre le fortune elettorali. In prima battuta però, nel 1964, la mossa è elettoralmente vincente. I Repubblicani fanno l’errore di contrapporgli un esponente di estrema destra, Barry Goldwater, e vanno incontro a una sconfitta drammatica: Johnson vince con il 61% contro il 39%. E I Repubblicani restano confinati nell’antica roccaforte dei Democratici: gli stati del Sud: Louisiana, Mississipi, Alabama, Georgia e South Carolina, oltre all’Arizona. Uno “swing” che non sarà occasionale, ma definitivo, e che cambia per sempre la mappa elettorale d’America.
Bertwooster

Link per leggere le precedenti puntate: prima parte, seconda e terza

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