Breve storia delle elezioni presidenziali USA, da George Washington a Barack Obama

Parte I – USA

L’elezione del Presidente degli Stati Uniti d’America è certamente l’evento democratico più seguito al mondo, e al tempo stesso uno dei più antichi. Non esiste quasi istituzione democratica, infatti, salvo forse il Parlamento inglese, che venga eletta ininterrottamente da quasi 230 anni. Per questo l’elezione del presidente Usa è al tempo stesso una festa della democrazia, e una prova provata della sua pur sempre difficile stabilità.
Faremo qui per Bidimedia un breve excursus della storia delle elezioni presidenziali statunitensi, dal 1789, anno in cui fu eletto il primo presidente, George Washington, fino al 2012, per raccontare l’evoluzione delle regole, delle dinamiche politiche e degli schieramenti. Scopriremo le storie e le curiosità dei diversi appuntamenti elettorali, ci sarà qualche accenno alle personalità, talvolta eccezionali, talvolta mediocri, dei vari inquilini della Casa Bianca, scopriremo come i principali due partiti, in modo piuttosto sorprendente, si siano scambiati più volte in questi due secoli il ruolo di parte conservatrice e parte progressista. E soprattutto ci incentreremo sulle mappe elettorali, di come sono mutate in modo, anche qui, molto sorprendente, ma in fondo logico, in base all’evoluzione sociopolitica del Paese. E ripercorrere questa storia forse potrà dare anche spunti per capire meglio l’evoluzione del presente.

Due questioni di metodo. La prima: non potremo assolutamente approfondire le vicende storiche del Paese, anche se sarà inevitabile accennare ai più importanti eventi nel descrivere le dinamiche elettorali e le personalità dei vari presidenti. La seconda: non toccheremo l’argomento, molto dibattuto, dell’estensione dei poteri presidenziali. Ci limitiamo ad accennare, in questa sede, che nel corso della storia i poteri del presidente si sono tendenzialmente accresciuti e rafforzati, se non nel diritto, di certo nella pratica politica quotidiana, il che ha portato a trasformare quella che doveva essere una figura di garanzia e di “coesione” politica, in un autentico “dominus” del sistema politico statunitense, se non del mondo intero. Un percorso accidentato e spesso molto criticato, anche da coloro che poi in seguito ne hanno usufruito (ad esempio Woodrow Wilson).

La prima elezione risale, come si è detto al 1789, anno cruciale della storia mondiale. Battuti gli inglesi, i coloni americani dovettero scegliere il loro nuovo sistema di governo, che doveva essere, sulla base degli ideali illuministi di cui è pervasa la Costituzione, democratico ed egualitario. Ma non troppo democratico, Stiamo parlando pur sempre di un gruppo ristretto di proprietari terrieri, professionisti, grandi commercianti che ovviamente, come tutti gli esponenti della loro classe, guardavano con sospetto alla democrazia totale alla Rousseau. Ecco che quindi fu deciso, oltre al sistema bicamerale, di istituire una figura che di fatto si ispirava quella del Re d’Inghilterra dell’epoca: un capo della nazione, che potesse dire la sua nel processo legislativo e rappresentare quello esecutivo, sia pure circondato da consiglieri e ministri che ne limitassero l’autonomia. Per eleggerlo si scelse l’elezione di “secondo livello”: il sistema immaginato dai teorici liberali in quegli anni per “temperare” gli eccessi della democrazia. L’idea era che ogni stato, in proporzione alla sua popolazione, eleggesse delle persone con l’incarico specifico di eleggere il Presidente. Questo “collegio elettorale” non aveva vincolo di mandato, e votava segretamente (ed ancora oggi in realtà è così). In questo modo al popolo era di fatto sottratta l’elezione diretta, e tutto si sarebbe consumato nelle segrete stanze del potere. Va tenuto anche presente che questi “Grandi elettori”, almeno fino al 1824, non erano eletti direttamente dal popolo, ma a loro volta da istituzioni locali, in genere dai Parlamenti di ciascuno Stato. Quindi, nei primi tempi, si trattava di fatto di un’elezione di terzo livello.

La prima elezione è un plebiscito: Washington, l’eroe della rivoluzione, è eletto senza discussioni dai rappresentanti dei 13 stati  fondatori (ma in realtà votano solo quelli di dieci: i rappresentanti di New York non arrivano in tempo, e quelli di Rhode Island e North Carolina non partecipano, perché i due Stati non avevano ancora ratificato la Costituzione) . La Costituzione però all’epoca prevede che ogni componente del collegio elettorale esprima due voti: il più votato diventa presidente, il secondo vicepresidente. Vice presidente è eletto John Adams, anche qui senza problemi. Nessuna differenza locale da segnalare.

Tre anni dopo, nel 1792, altra elezione plebiscitaria per Washington: il conflitto politico si sposta però sul vicepresidente. John Adams è tallonato da vicino dal democratico George Clinton. Qui si manifesta il primo embrione del bipartitismo statunitense. Washington e Adams appartengono alla corrente “federalista”, che a dispetto del nome è centralista, e vuole infatti accrescere il potere centrale dell’Unione, con un governo più forte e dirigista, puntato allo sviluppo del commercio e dell’industria sulla base di un’ideologia mercantilista. I democratici invece sono più legati all’ideale federalista delle origini, all’idea della “libera repubblica degli agricoltori”, in cui allo stato federale vengano lasciati pochissimi poteri. Un’utopia in parte reazionaria, visto che si fondava sostanzialmente sulla schiavitù, e che ignorava i fermenti dell’industrializzazione, già allora ben visibili nel Nord degli Usa.

Il conflitto Federalisti-Democratici si manifesta più fortemente nelle elezioni del 1796. Washington rifiuta il terzo mandato (e da allora il suo esempio fu giudicato da tutti vincolante, per almeno un secolo e mezzo), e il collegio elettorale si spacca in due. Il primo risulta John Adams, secondo, e quindi vicepresidente, il suo acerrimo avversario, Thomas Jefferson. La differenza è solo di tre voti. La mappa elettorale mostra già una netta divisione: gli stati del Sud e dell’Ovest (tra cui Kentucky e Tennessee) , inaugurando una longeva tradizione, votano i democratici, e quindi Jefferson, quelli del Nord e dell’Est Adams.

Nel 1800 la prima “alternanza”. I democratici conquistano il collegio elettorale. Ma accade un episodio incredibile: due candidati, Thomas Jefferson e Aaron Burr, entrambi democratici, ottengono lo stesso numero di voti: 89. La costituzione stabilisce che in caso un candidato presidenziale non raggiunga la maggioranza assoluta dei voti del collegio elettorale, a scegliere sarà la Camera dei rappresentanti, con un voto per ogni singolo Stato (regola che vige tuttora, e che potrebbe verificarsi se, in ipotesi, Clinton e Trump a novembre ottenessero entrambi 269 voti). Nel 1800 la Camera dei rappresentanti è in mano ai Federalisti che, di malavoglia, scelgono Jefferson. La mappa elettorale mostra la consueta divisione Nord-Sud, con i democratici che però conquistano New York e metà dei voti della Pennsylvania.

Nel 1804, visto anche la confusione di quattro anni prima, viene tolta dalla Costituzione la regola del “doppio voto”, con cui il secondo classificato diventa vicepresidente. Nascono così i ticket: si vota sia per il presidente che per il vicepresidente, che diventano un binomio inscindibile. Jefferson, l’estensore materiale di buona parte della Costituzione, filosofo e intellettuale di valore, e anche lui molto più accentratore di quanto avrebbe ammesso la sua ideologia, vince a mani basse 162 a 14 contro il federalista Charles Pinckney.

Nel 1808 Jefferson si ritira, e la vittoria spetta a uno dei suoi più stretti collaboratori, James Madison, che vince agevolmente contro il Federalista Pinckney: ai Federalisti restano di fatto solo le roccaforti del Nord Est (Vermont, Maine, New Hampshire).

Madison viene confermato, più a fatica, nel 1812, contro il federalista De Witt. E’ l’anno della guerra contro gli inglesi, che servirà a compattare lo spirito nazionale, pur senza ottenere alcun risultato di rilievo.

Nel 1816 i Democratici raggiungono un successo strepitoso con l’elezione di James Monroe (inventore dello slogan: “L’America agli americani”, orgogliosa rivendicazione di indipendenza dalle potenze coloniali e embrione del futuro imperialismo Usa). che ottiene l’82,8% dei voti del collegio elettorale.

Monroe viene eletto ancora più trionfalmente nel 1820, con il 98,3%. I Federalisti si avviano così a scomparire dalla scena politica nazionale. Ma si tratta dell’ultimo atto del dominio dell’antica generazione politica, quella dei reduci della Rivoluzione. Presto, come vuole la dialettica hegeliana, il partito vincente sarà destinato a dividersi e ristabilire una nuova dialettica. Gli Usa infatti stanno cambiando: mentre il Sud schiavista vive in una dimensione bucolica senza tempo, il Nord vive la sua rivoluzione industriale, e nel frattempo poveri e immigrati si stanno spostando rapidamente a Ovest, alla conquista della Nuova frontiera. Pretendono terra, ordine, guerra agli “indiani”, libertà d’impresa e democrazia, non si accontentano più di essere governati da una “casta” di intellettuali, grandi proprietari terrieri, finanzieri e industriali dell’Est. Nei nuovi Stati comincia a diffondersi il suffragio universale, negato solo a chi non possiede nulla, o quasi. La politica comincia a proporre esponenti molto diversi dai precedenti, gli uomini “della frontiera”, che conoscono la vita dura dei pionieri e ne difendono le esigenze a Washington. Il tema dello schiavismo, in cui si intrecciano motivazioni morali e necessità economiche, comincia a dividere gli animi. Nel 1820 viene approvato il Compromesso del Missouri, con cui si stabilisce che, confermato il diritto di ogni singolo Stato a decidere sulla legalità della schiavitù, i nuovi Stati in formazione ad Ovest  potranno mantenere la schiavitù solo a Sud del 36° parallelo e 30. Unica eccezione, appunto, il Missouri. Un accordo la cui violazione porterà, nel giro di qualche decennio, alla guerra civile.

Punto di svolta sono le elezioni del 1824. John Quincy Adams, democratico, ex segretario di Stato di Monroe, autentico ispiratore della sua dottrina e figlio di John Adams, viene insidiato da Andrew Jackson, di umili origini, avvocato ma soprattutto eroe della guerra contro gli inglesi e contro i pellerossa. Jackson è anche lui democratico, ma in realtà è totalmente alternativo alla vecchia classe politica: è l’idolo dei pionieri, ed esponente di punta della “frontiera”. Il difensore dei piccoli proprietari, dei cowboys, e grande sponsor della conquista dei territori dell’Ovest ai danni degli indiani. Nel 1824 inoltre per la prima volta  ci si avvicina a quello che oggi definiremmo suffragio universale maschile. I voti popolari sono determinanti in quasi tutti gli Stati (con alcune eccezioni, tipo New York), e vengono ripartiti in base alla regola del “vincitore prende tutto” (che oggi vale ancora, tranne che in Maine e Nebraska). Vale a dire: i Grandi elettori sono scelti in una lista collegata al candidato presidente, e chi prevale anche solo per un voto nello Stato, conquista tutti i Grandi elettori dello Stato. Ne consegue quindi che i Grandi elettori sono di fatto (anche se non di diritto), vincolati, e senza libertà di scegliere. Il risultato è clamoroso: Andrew Jackson stravince nei voti popolari, conquistando New Jersey, Pennsylvania, Indiana, North Carolina, Alabama e Georgia. Ma nel collegio elettorale non ottiene la maggioranza assoluta, anche per l’opposizione dei delegati dei pochi Stati che non erano stati eletti direttamente dal popolo. Così interviene la Camera dei rappresentanti elegge invece John Quincy Adams, ignorando la chiara volontà popolare. Jackson saprà prendersi presto la rivincita.

 

Bertwooster

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