Le Guerre jugoslave (1990-1995) – Guerra d’indipendenza croata – Prima Parte

Qui, l’introduzione

1991

L’odio etnico cresceva sempre di più e di pari passo la propaganda di entrambe le parti. Si arrivò a veri e propri scontri armati nelle zone a maggioranza serba. A Pakrac i serbi attaccarono unità della polizia croata, con un bilancio finale di 20 morti. Tra l’agosto del 1990 e l’aprile 1991 furono registrati quasi 200 attentati con bombe e mine e oltre 89 attacchi alle forze di polizia croate. Josip Jovic, un poliziotto, fu la prima vittima degli attacchi serbi in quello che poi è diventato famoso come l’incidente dei Laghi di Plitvice.

Il Ministero degli Interni croato rispose alla ribellione serba iniziando ad armare un sempre più crescente numero di reparti della polizia, fino ad arrivare a costituire un vero e proprio esercito. Il 9 aprile 1991, il presidente croato Tuđman ordinò che le forze speciali di polizia venissero rinominate Zbor Narodne Garde (“Guardia Nazionale”); questo atto segnò l’inizio della creazione di forze armate separate per la Croazia. Le unità appena costituite furono presentate al pubblico in una parata e al successivo passaggio in rassegna allo Stadio Kranjceviceva a Zagabria il 28 maggio 1991.

Il 15 maggio 1991 Stjepan “Stipe” Mesić sarebbe dovuto segretario a rotazione della presidenza jugoslava, ma la sua nomina fu bloccata dal veto di Vojvodina, Montenegro e Kosovo, i cui uffici di presidenza erano a quel tempo sotto il controllo serbo. Tecnicamente, la Jugoslava si trovava senza un comandante in capo delle forze armate e un capo di stato. Si rivotò due giorni dopo sempre senza esito. Il Primo Ministro della Jugoslava Ante Markovic propose la nomina di un comitato che avrebbe esercitato i poteri presidenziali. Tuttavia, non si capiva nè chi avrebbe dovuto far parte del comitato, a parte il Ministro della Difesa Veljko Kadijević, nè tantomeno chi avrebbe svolto il ruolo di comandate in capo della JNA. La Croazia rigettò la proposta come anticostituzionale. La crisi fu risolta dopo sei settimane di stallo e fu eletto presidente Stipe Mesic, il primo non-comunista a diventare capo di stato della Jugoslavia dopo decenni. Nel frattempo, Milosevic continuava ad esercitare il suo controllo totale sulla JNA e le Forze territoriali di difesa. L’organizzazione Helsinki Watch ha riportato che autorità serbe di Krajina fecero passare per le armi i serbi che manifestarono il desiderio di trovare un accordo con i funzionari croati.

Il 19 maggio 1991 le autorità croate indirono un referendum per l’indipendenza nel quale era anche presente l’opzione di rimanere con la Jugoslavia, se pur con un legame più blando. Belgrado lanciò appelli al boicottaggio, indicazione largamente seguita dai serbi di Croazia.  Il referendum passò con il 94% dei favorevoli. La Croazia dichiarò la sua indipendenza e dissolse la sua razdruženje, l’associazione con la Jugoslavia, il 25 giugno 1991. La Commissione Europea chiese una moratoria di 3 mesi sull’indipendenza, in modo da stemperare i toni sempre più accesi. La Croazia accettò.

Nel luglio 1991 la JNA tentò di salvare quello che rimaneva della Jugoslavia, impegnandosi in operazioni in aree a prevalenza croata. Nello stesso mese, le forze di difesa territoriali a guida serba iniziarono la loro avanzata verso le coste della Dalmazia con l’Operazione Coast-91. Per i primi di agosto, larghe parti della Banovina finirono sotto il controllo delle forze serbe.

Come era successo con la guerra in Slovenia, molti soldati serbi e croati iniziarono a disertare le file della JNA. Molti albanesi e macedoni cercarono mezzi legali per lasciare l’esercito federale o svolgere il servizio militare nel proprio paese; tutti questi comportamenti portarono a una “serbizzazione” dell’esercizo jugoslavo.

Un mese dopo la dichiarazione di indipendenza della Croazia, l’esercito jugoslavo e altre forze serbe (gruppi paramilitari come le Tigri di Arkan e le Aquile Bianche di Seselj) avevano il controllo di poco meno di un terzo del territorio croato, per la maggior parte aree con una popolazione predominante di etnia serba. La strategia delle forze serbe consisteva in parte nel cannoneggiamento intensivo, talvolta senza tener conto della presenza di civili. Con il procedere della guerra, le città di Ragusa, Gospic, Sebenico, Zara, Karlovac, Sisak, SlavonskiBrod, Osijek, Vinkovci e Vukovar finirono sotto attacco della forze jugoslave. L’ONU impose un embargo sulle armi; ciò non ebbe effetti significativi sulle forze serbe supportate dalla JNA, in quanto avevano gli arsenali federali a loro disposizione, ma l’embargo causò seri problemi al neo costituito esercito croato e il governo della Croazia avviò un contrabbando di armi attraverso le sue frontiere.

In agosto iniziò la prima vera battaglia della guerra: l’assedio di Vukovar, città simbolo della fu Jugoslava multietnica. Essa era infatti divisa equamente tra croati e serbi, con una leggera prevalenza dei primi, oltre ad avere minoranze tedesche, magiare ed italiane. Verso settembre la JNA e le forze paramilitari serbe avevano completamente accerchiato la città, difesa solo dalla 204ma Brigata Vukovar. Il 3 novembre 1991 fu lanciato l’assalto finale che divise in due sacche il perimetro dei difensori: a nord, il villaggio di Borovo Selo (già per metà occupato dalle truppe jugoslave) e a sud la città di Vukovar. La difesa croata era disperata: l’artiglieria croata, schierata a Nustar e Osijek, era scarsa e poco efficace, i mezzi corazzati erano solo 2 carri T-55 catturati, le munizioni scarse. I rifornimenti arrivavano ormai solo di notte e col contagocce attraverso l’unica strada utilizzabile, una strada sterrata attraverso i campi di mais battuta dal fuoco jugoslavo.

Ancora più grave era la situazione dell’ospedale. I feriti erano ammassati nei corridoi e nelle cantine e ormai il personale sanitario era privo di tutto. I medicinali erano gli unici rifornimenti che provenivano dall’esterno.

Il 10 novembre un feroce assalto jugoslavo conquistò i 2/3 della città, costringendo i difensori in pochi isolati addossati al Danubio. La città, ormai ridotta a un cumulo di macerie e completamente circondata, vide una resistenza disperata da parte delle forze croate, salvo capitolare definitivamente il 19 novembre.

Entro il giorno seguente furono represse anche le ultime sacche di resistenza. I paramilitari serbi di Arkan e Seselj furono i primi ad entrare in città. Pochissimi dei difensori croati riuscirono a fuggire, attraverso sentieri nei campi di mais e a prezzo di gravi rischi: la maggior parte dei sopravvissuti della guarnigione venne fatta prigioniera.

L’ultima a cedere fu la direttrice dell’ospedale di Vukovar, la dottoressa Vesna Bosanac, che si offrì di restare per garantire ai feriti un corretto trattamento da parte dei serbi; ma fu arrestata e condotta via, ed i feriti croati, civili e militari furono sterminati ed i corpi occultati. Anche la popolazione civile di Vukovar, a maggioranza croata, subì molte violenze e maltrattamenti, e centinaia di persone risultano scomparse a tutt’oggi in quanto i loro corpi non sono mai stati rinvenuti.

Nel frattempo, a Gospic 150 civili serbi, tra cui 48 donne, vennero deportati verso una località sconosciuta. Azioni del genere furono messe in atto in altre città come monito per i serbi a lasciare la Croazia. A Sisak furono giustiziati 100 civili serbi, mentre  a Osijek ne morì un altro centinaio.  Stessa sorte toccò a 280 cittadini serbi a Zagabria.

Nel dicembre 1991, dopo una serie di “cessate il fuoco” non rispettati, l’ONU dispiegò una forza di mantenimento della pace in alcune parti della Croazia detenute da serbi al fine di controllare il territorio ed imporre una tregua in attesa di una soluzione diplomatica.

Vukovar

 

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