Breve storia delle elezioni presidenziali USA, da George Washington a Barack Obama /3

Parte III – USA

L’ultimo scorcio del XIX secolo segna un periodo di relativa stabilità politica, e di grande progresso economico per gli USA, congiunto all’emergere di nuove contraddizioni, e di pulsioni socialiste. Il Partito Democratico, uscito a pezzi dalla guerra civile, senza bussola né ideali, fatica a trovare un ruolo nazionale, e si limita a fare lo sparring partner dei Repubblicani piglia-tutto, al cui interno si trova ogni cosa: dall’estrema sinistra pro minoranze e diritti civili, alla destra dei grandi industriali. Ai Democratici resta la rappresentanza del Sud ex schiavista, e l’eco delle antiche battaglie jacksoniane, in favore dei pionieri e dei piccoli proprietari.

Nel 1868 il partito Repubblicano riconquista la presidenza con Ulysses Grant, il generale vittorioso nella guerra civile, amico e sodale di Lincoln. In termini di voti non è una vittoria strepitosa (52,6% contro 47,3%), ma in termini di grandi elettori è molto più netta. Ai democratici di Horatio Seymour resta solo a sorpresa New York (in questo periodo swing state per eccellenza), Maryland, Delaware, New Jersey, Georgia, Missouri, Kentucky e Oregon. Anche in molti Stati del Sud vincono i Repubblicani grazie agli schiavi liberati e ai cosiddetti carpet-bagger, gli arrivisti del Nord venuti a impossessarsi dei beni dei sudisti sconfitti. Presto i primi verranno messi in condizione di non votare, i secondi saranno cacciati via.

Grant, grande generale ma politico e presidente mediocre, viene comunque riconfermato nel 1872, nonostante i diversi scandali in cui è coinvolta la sua amministrazione. Anzi, la vittoria è più netta in termini di voti di quattro anni prima: 52,6% contro 43,8%. I democratici di Horace Greeley sono espulsi dal Nord (tranne il Maryland) e dal Sud (tranne la Georgia), e reggono bene solo nel MidWest, e nel Texas.

Nel 1876 la stanchezza per la gestione repubblicana, e la crisi economica dovuta al “Panico del 1873” (che si trascinerà per almeno un decennio) rischia di portare un esito a sorpresa: il candidato democratico Samuel Tilden sopravanza di ben 250 mila voti il favorito repubblicano, Rutheford Hayes, che però prevale per un solo voto elettorale, 185 a 184. Decisivi sono i voti del Colorado, nuovo Stato che, però, non elegge ancora direttamente i suoi Grandi elettori. Il voto del Collegio elettorale, come ci si può immaginare, è molto contestato, e tutto si risolve con un compromesso: i democratici danno il via libera ad Hayes, in cambio del ritiro dell’esercito dagli Stati del Sud, che quindi, di fatto, potranno avviare una politica di segregazione razziale. Hayes in generale, come i presidenti dopo di lui, sarà una figura mediocre, un avvocato di provincia incapace di cogliere i grandi mutamenti sociali che stavano avvenendo, e sordo alle sempre più difficili condizioni degli operai. In questa fase entrambi i partiti storici Usa appaiono legati a un ceto politico modesto e autoreferenziale, molto arretrato rispetto all’evoluzione della società civile. Ad accomunare questi presidenti anche il sostegno acritico alla conquista del West, e alla guerra contro i pellerossa, che assumerà i contorni di un genocidio, di cui storicamente sono tutti responsabili.

Nel 1880 viene eletto con grande margine James Garfield, professore, letterato e geometra a tempo perso (inventò una nuova dimostrazione del Teorema di Pitagora). La mappa elettorale torna a essere quella tradizionale: Sud e Midwest ai Democratici, con l’aggiunta di California, Nevada, Maryland, Delaware e New Jersey. Ma il Nord industriale è tutto repubblicano, in particolare Illinois, Iowa, Michigan, e in aggiunta Kansas, Nebraska e Colorado. Garfield viene assassinato dopo pochi mesi di presidenza da un folle, Charles Guiteau, che pretendeva un posto nel suo governo. Al suo posto sale il vicepresidente Chester Arthur, un buon amministratore, con un passato di avvocato per i diritti civili. Arthur riesce a rendere più efficiente e onesta l’amministrazione, ma, come i suoi predecessori, continua ad avere mano durissima con i pellerossa.

Arriviamo così al 1884, con la rivincita dei Democratici. Arthur rinuncia a ripresentarsi, e i Repubblicani candidano il loro leader, James Blaine, che però viene azzoppato da uno scandalo di corruzione. Così la vittoria tocca ai Democratici di Grover Cleveland, politico molto conservatore, ma con fama di incorruttibilità. Cleveland vince per appena 60 mila voti popolari, ma il suo successo in grandi elettori è molto più netto: decisivi lo swing di New York (il suo stato) del Nebraska e dell’Indiana.

Cleveland è un uomo retto, iperliberista, e rigorista. Taglia le spese dello Stato, e manda la polizia contro le prime rivolte operaie. La sua gestione onesta ma miope gli costa la presidenza. Nel 1888 i Repubblicani gli tolgono la presidenza, candidando Benjamin Harrison, nipote di William Harrison, il presidente che era molto di polmonite un mese dopo la sua elezione, un avvocato molto legato alle grandi industrie del Nord, propugnatore di grandi spese in sostegno alla manifattura. Harrison è indietro nei voti popolari per 90 mila voti, ma riconquista gli stati swing di New York e Indiana, e tanto  basta per mandare via Cleveland dalla Casa Bianca. Si tratta della terza volta che il primo arrivato nei voti popolari non ottiene la presidenza (ricordiamo i casi di Quincy Adams e Hayes). In futuro accadrà soltanto con George W.Bush.

La rivincita per il “democratico tutto di un pezzo” Cleveland arriva nel 1892, quando riconquista la presidenza proprio ai danni di Harrison. I Repubblicani perdono New York, Illinois, indiana, e a sottrargli voti è un nuovo movimento, il partito populista, che si insinua tra i due grandi partiti. Grover Cleveland quindi risulta l’unico presidente ad aver vinto due volte non consecutive la corsa alla Casa Bianca, ottenendo per altro per ben tre volte di fila la maggioranza di voti popolari.

Il 1892 segna un nuovo punto di svolta: ormai le tensioni sociali stanno cambiando la faccia dei vecchi Usa usciti dalla guerra civile. Oltre ai fermenti del movimento operaio, si fanno strada le richieste dei piccoli proprietari terrieri dell’Ovest, che rifiutano l’idea del governo di vietare, o ridurre, il corso delle monete d’argento, per imporre la circolazione solo dell’oro, o dei biglietti legati al valore dell’oro. E’ la polemica sul “bimetallismo”, che segna il cambiamento di rotta nella storia dei due partiti. Mentre i Repubblicani, legati alla grande industria, alla borghesia e alle professioni, vogliono la stabilità economica del monometallismo, i Democratici, per opera del loro nuovo leader, William Jennings Bryan, sposano il bimetallismo, che consente maggiore liquidità e investimenti a buon mercato per i piccoli proprietari terrieri, i piccoli commercianti e gli artigiani.

Il dibattito economico si trasforma così in una questione sociale. I Democratici così tornano a essere il partito della “piccola gente”, della frontiera, della contrapposizione al Big business dell’Est. E cominciano anche ad attirare qualche avanguardia operaia, anche se ci vorranno molti anni prima che i Democratici diventino davvero il partito dei lavoratori dipendenti e degli operai. Nel 1896 si contrappongono il repubblicano William McKinley, un economista moderatamente progressista, favorevole al protezionismo e al monometallismo, e Bryan, che infiamma con i suoi comizi in favore del bimetallismo gli agricoltori del Sud e dell’Ovest. “Non ci inchioderete a una croce d’oro”, è il suo slogan. E’ questa forse la prima campagna elettorale “di massa” degli Usa, e la prima in cui si contrappongono una “destra” e una “sinistra” in senso moderno, con tutte le distinzioni del caso. Vince McKInley, con il 51% contro il 47%, mantenendo i voti del Nord Est industriale, oltre che della California. Bryan trionfa al Sud e nel Midwest, e soprattutto dà una nuova ragion d’essere ai Democratici.

McKinley governa con saggezza e buon senso, ottenendo ottimi risultati economici, e mostrando una sensibilità sociale più spiccata dei suoi predecessori. Anche per merito della guerra ispano-americana, che consente agli Usa di cacciare la Spagna da Cuba, nel 1900 è di nuovo eletto. Bryan, anche questa volta suo avversario, non riesce a sfondare al Nord, e perde anche qualche bastione nell’Ovest.

Ma a McKinley tocca la sorte di Lincoln e Garfield: nel 1901 è assassinato da un anarchico di origine polacca, Leon Czolgosz all’esposizione panamericana di Buffalo. Prende il suo posto il vicepresidente Theodore Roosevelt, una delle più grandi personalità della politica americana. Di famiglia ricca, appassionato di caccia grossa e viaggi avventurosi, ha lasciato tutti gli incarichi politici per andare a combattere nella guerra contro la Spagna. Tornato in patria come un eroe, è stato eletto vicepresidente. La sua presidenza è il canto del cigno dei Repubblicani progressisti: Roosevelt è il primo a intraprendere riforme sociali in favore degli operai, e allo stesso tempo è fautore esplicito di una politica imperialista degli Usa. Nel 1904 vince a valanga contro il democratico Alton Parker, a cui restano solo gli stati del Sud. A danneggiare Parker anche la prima comparsa dei socialisti, con il loro leader storico Eugene Debs, che ottiene quasi il 3%.

Nel 1908 Roosevelt si ritira, al culmine della sua popolarità, e lascia lo scranno al suo ministro della Guerra, William Taft, che vince senza difficoltà contro Bryan, per la terza volta candidato e per la terza volta sconfitto, stavolta largamente: per lui solo il solito Sud, più Colorado, Nevada e Nebraska. Nulla descrive meglio l’ambivalenza del populismo di Bryan del fatto che, negli anni ’20, l’antico avvocato dei diritti della povera gente si distinguerà per organizzare processi contro l’insegnamento del darwinismo nelle scuole. Per il socialista Debs solo il 2,83%.

Ma la presidenza Taft si risolve in un disastro: il presidente si fa irretire dalle forze più reazionarie, spostando decisamente a destra i Repubblicani, mentre il conflitto sociale si fa sempre più severo. Lo stesso Roosevelt è irritato da questa deriva, al punto che, alle elezioni del 1912, si presenta contro il suo vecchio partito con il Progressive Party. Il risultato è catastrofico per Taft, che ottiene solo il 23% dei voti, e vince solo in Utah e New Hampshire. Roosevelt invece conquista sei stati, tra cui la California. Ma a dominare è il candidato democratico, Thomas Woodrow Wilson, che si aggiudica la Casa Bianca alla vigilia di uno dei periodi più  tormentati della storia moderna.

Woodrow Wilson è uno dei presidenti più controversi della storia. Professore universitario di scienze politiche, intellettuale e studioso del sistema politico statunitense (che voleva trasformare in un sistema parlamentare di tipo europeo, fondato su partiti di massa), era stato preside di Princeton. E’ stato l’unico presidente Usa, prima di Obama, ad avere il titolo di Ph.D. il massimo titolo accademico negli Usa. La sua linea politica è decisamente “di sinistra” in campo sociale, mentre, per le sue origini sudiste, è fieramente avverso ai diritti dei neri, e anzi sotto la sua presidenza la segregazione razziale si fa molto più dura, e il Ku Klux Klan incoraggiato. In ogni caso la sua presidenza segna il destino del Partito democratico come parte “liberal” del Paese. Nel 1916 si fa rieleggere con la promessa di tenere gli Usa lontani dalla guerra mondiale (ma i Repubblicani di Charles Hughes conquistano molti stati importanti nel Nord del Paese, tra cui New York, Massachusetts e Illinois), e invece nel 1917 entra in campo per aiutare le potenze democratiche contro gli Imperi centrali. E’ noto come la rigidità professorale di Wilson influenzò le durissime clausole del Trattato di Versailles, e la nascita della Società delle nazioni. Meno noto è come la sua politica estera e il quo coinvolgimento negli affari europei causò un profondo rigetto nel suo Paese, inducendo la popolazione a sposare l’isolazionismo, cioè la lontananza da tutti gli affari europei, propugnato dai Repubblicani.

La fine della presidenza di Wilson è traumatica: nell’ottobre 1919 viene colpito da un grave ictus, che lo rende inabile. Per un anno quindi il Paese non è di fatto governato, anche se la popolazione non conosce bene le condizioni del Presidente. Nel frattempo il Parlamento rifiuta di approvare l’ingresso degli Usa nella Società delle nazioni, vanificando così la più grande opera politica di Wilson. Con la fine della sua presidenza gli Usa entrano in una nuova fase, segnata prima da un forte conservatorismo, poi dalla grande speranza del New Deal.
Bertwooster

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